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Rabu, un paese di martiri

“Solo voglio sapere se è vivo o morto”, afferma Nadia Marouf raccontando la storia di suo marito Yussef Iskander, presumibilmente assassinato nella città siriana di Raqqa, a 542 chilometri al nordest di Damasco.

“Ho abbandonato Raqqa in settembre del 2012, quando la situazione si complicò, coi miei figli Hala e Yehia, di tre e cinque anni, rispettivamente”, spiega a Prensa Latina, nel piccolo ed umile villaggio di Rabu, nella centrale provincia di Hama.

“Alcuni mesi fa l’auto-denominato Esercito Libero Siriano (ELS) è entrato nella località ed ha preso prigioniero mio marito ed altri 15 poliziotti”. “L’ho saputo quando l’ho chiamato al telefono ed i terroristi hanno risposto burlandosi e ridendo”, ricorda con tristezza.

“Attraverso un intermediario che è risultato essere un truffatore mi hanno chiesto due milioni di libbre siriane (circa 20 mila dollari) per liberarlo, tutto è stato una bugia”.

“Ma la cosa peggiore è stata quando lo Stato Islamico (Isis) ha strappato Raqqa all’ELS, da allora non ho saputo più nulla di lui”, sottolinea tra le lacrime.

Dopo aver passato un anno, le autorità siriane hanno dichiarato Yussef Iskander come “martire”.

“Le poche famiglie dei militari e dei poliziotti che sono rimaste in quella città sono stati catturate e la maggioranza assassinate”, risalta la giovane di 34 anni.

Il dramma di Nadia Marouf si ripete una ed un’altra volta a Rabu e nei villaggi vicini, situati nel municipio di Masyaf, dove l’immensa maggioranza dei suoi abitanti sono alauiti.

A Rabu e le vicine località, le fotografie degli shahids (martiri) coprono i pali elettrici delle principali strade, spesso senza asfaltare.

Con appena tre mila abitanti, Rabu si dibatte tra l’orgoglio ed il dolore per i suoi 73 giovani caduti in combattimento contro le formazioni radicali, patrocinate dagli Stati Uniti e dai suoi alleati.

Piene di fiori, foto e bandiere siriane, una ventina di tombe, a circa 500 metri dal villaggio, sono il promemoria del prezzo pagato per fermare i gruppi islamisti, ma non l’unico.

Alcune famiglie preferiscono seppellire i loro cari nelle terre dei loro antenati, circondati da olivi e fichi.

Tale è il caso di Adib Mahfud, Hakim Razuk ed Ahmad Musa, che sono morti combattendo durante la battaglia di Qaddam, nelle vicinanze di Damasco nel gennaio del 2014.

Sapendo che i suoi amici dell’infanzia erano circondati, Musa, che si stava ricuperando da una ferita, è ritornato a Qaddam e lì è morto. I tre adesso riposano insieme in semplici casse da morto, tra alberi di olivo.

Più dei cristiani e dei drusi, gli alauiti sono il principale bersaglio degli estremisti sunniti, che li considerano eretici ed infedeli, e pertanto sono assassinati senza pietà.

Davanti a tale situazione, non ci si deve meravigliare della loro mobilitazione in massa in appoggio al governo ed alle forze armate.

All’alba, mentre varie persone escono a lavorare la terra, un’anziana col tradizionale ishar (fazzoletto che copre la testa) visita una tomba accompagnata da sua nipote.

In una strada senza asfaltare, un uomo con una giacca mimetica, si muove in una sedia a rotelle automatica dovuto alle lesioni ottenute in combattimento.

Con speciale orgoglio, i vicini raccontano la storia di Saado Loulo che si è sommato all’esercito dopo perdere i suoi tre figli, a 65 anni. La situazione è simile nel villaggio di Deir Salib, conosciuto per la sua combattività.

Quasi 60 tombe sparse in un pendio si sono convertite di un luogo di pellegrinaggio ed omaggio.

“Esistono persone che si sono impegnate a lottare ed hanno compiuto la loro parola” cita una delle lapidi di marmo che abbondano in questo cimitero, da dove si scorge gran parte di Deir Salib.

In questi villaggi è difficile trovare gruppi di uomini adulti, solo rimangono anziani e bambini, o feriti durante i combattimenti. Quelli adatti ad impugnare un fucile, stanno al fronte.

A dispetto della perdita dei loro cari e la situazione economica che ferisce la regione, i suoi abitanti sono ottimisti. “Stiamo col presidente Bashar al Assad”, afferma piena di orgoglio Hassibah, madre di Nadia.

di Roberto Castellanos Fernandez, corrispondente in Siria di Prensa Latina

traduzione di Ida Garberi

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