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Garatti e le opere aperte

Vittorio Garatti

Vittorio Garatti

Amo i sistemi aperti che interagiscono con l’informazione. Odio i sistemi chiusi che soffocano.  
 
Vittorio Garatti  

Lui passava, di nuovo, per L’Avana –questo animale che conosce bene la sua pelle–.Ho affrettato il passo per i vicoli popolosi della città vecchia per arrivare in tempo a regalargli un fiore e dirgli grazie maestro, stringendogli la mano, perché Garatti è un uomo che deve ricevere cose come fiori e gratitudine. Perché quelle di Garatti sono mani che hanno creato molto e bisogna stringerle e gridargli attraverso la propria mano, gridargli perdono a nome di qualcosa, come se in questo ci fosse il rimedio. Un perdono disperato per la metà di un secolo di ritardo imperdonabile.   

E’ venuto per assistere ad un’esposizione gigantesca dedicata alla sua opera, di cui la principale –nell’ENA (Scuola Nazionale di Arte), le Scuole di Balletto e Musica–è ancora incompiuta. Garatti la visita ogni volta che viene. Lo fa ancora dopo 49 anni, e passa gli occhi per tutta la voracità con cui avanza il suo non termine, come consolando un lamento con lo sguardo.

Nel Centro Wifredo Lam, l’ho incontrato guardando attraverso una finestra. Fuori, le foglie di una palma da cocco. L’architetto sorride e dice: “Sto guardando le finestre della mia scuola: quelle foglie sono le persiane della scuola di Balletto.”

Garatti è nobile. E non adesso per avere 87 anni ed essere un anziano, che si tende a venerare come se per forza l’aura di Don Chisciotte che l’avvolge l’abbia accompagnato tutta la vita. Lui ha qualcosa in più che un’aura: professa una fede senza limite nell’essere umano, levigata in tutti i suoi giorni con lo stesso mestiere con cui fa creature nello spazio, con la stessa elementare umiltà dell’artista che è.

Questo sua fede è cresciuta, come lui, nonostante le bombe della Seconda Guerra Mondiale. Nonostante i voltafaccia dei sistemi e degli uomini dei sistemi, perché ha visto da subito che c’erano molti angoli dove posare lo sguardo, che gli elementi si muovevano caoticamente nello spazio. E vide che era naturale.

Dopo la mia tesi di laurea, nel 1957 mi sono stabilito in Venezuela, dove ho conosciuto il cubano Ricardo Porro che era in esilio. Lì incominciamo a lavorare.

A nove mesi dal Trionfo della Rivoluzione, Porro ritorna a Cuba. Nei mesi che seguono al gennaio del 59, la borghesia scappa in blocco dal paese, dicendo che è solo per una settimana “perché gli americani non lo permetteranno”. Sono andati via gli architetti, i medici… tutti avevano una psicosi.

Porro ci chiamò, a (Roberto) Gottardi ed a me e ci ha detto: “Vengono qua”. Siamo stati i primi tecnici stranieri ad arrivare.

Siamo venuti a Cuba ed abbiamo incominciato a lavorare in Pianificazione Fisica nell’Università. La giovane architetta che era Selma Diaz racconta che Fidel gli ha detto che doveva occuparsi di fare la scuola d’arte più bella del mondo. Allora lei ha parlato con Porro.

In quegli anni –59, 61–la Rivoluzione era al principio. Quando noi siamo arrivati c’erano i cannoni antiaerei nel Malecon de L’Avana, e dopo alcuni giorni c’e stato l’attacco a Giron. Era un periodo di guerra, dove gli incarichi cambiavano in questo modo: “Tu sai maneggiare un fucile? Bene, prendi un fucile. Tu sai pilotare degli aerei? Prendi questo aereo. Tu sai fare architettura? Esercitala”. Non c’era tempo per concorsi o burocrazia. Così è arrivato l’incarico: fare “La Scuola d’Arte Più Bella del Mondo.”

Quelle cinque scuole (Plastica, Danza Moderna, Teatro, Balletto e Musica) dovevano essere molto legate tra loro; funzionando liberamente, ma come parte di una scuola compatta. Cosicché la prima cosa che pensiamo di fare è stata un “città dell’arte”. Ma il luogo era questo parco bellissimo che era il Country Club de L’Avana. Allora, quasi come architetti del Rinascimento, noi passeggiavamo per il parco. Aveva una circonvallazione periferica attorno alle case dei borghesi, dove si pensava alloggiare gli studenti. Incominciamo a percorrere e dicevamo: “Io, qui. Io, là.”

Io ho incontrato questa valle dove passa il fiume Quibù. A quel tempo era pulito, perfetto. Mi è piaciuto il posto. Mi sono piaciuti sempre i vuoti, le gallerie, le grotte… per tutto il mistero.

Dovevamo “offendere” il meno possibile il parco: integrarci con la natura. In quello che avevamo elaborato di analisi storica e dell’ambiente, abbiamo pensato: “È un parco, dobbiamo pensare a tutta l’architettura che si è fatta nei parchi, nei giardini”. Chi ha fatto i lavori migliori? Quelli che si descrivono ne “Le mille e una notte”, i giardini arabi e quelli del Mediterraneo; anche gli inglesi con le loro grandi serre di vetro… Chiaramente, doveva adattarsi al tropico.

E così abbiamo incominciato.

Poi ci hanno detto che dovevamo compiere le necessità funzionali che stessero chiedendo i direttori. Per il resto, libertà totale.

Eravamo nel momento più bello, più libero, più dinamico della Rivoluzione: non potevamo realizzare un modello preconcetto, già visto: doveva essere tutto evidentemente nuovo.

Le scuole dovevano essere elementi dinamici che si integrassero, si intrecciassero. Non poteva essere la forma classica, bloccata; perché il potere ha dovuto sempre rappresentarsi come tale. Ha dovuto sempre realizzare forme simmetriche per dire che tutto quello che sta alla destra deve stare anche alla sinistra, che la realtà è immobile, perché se è mobile si sposta il rischio di perdere il potere. “Il potere è già mio e non può toccarsi”: alla classe poderosa è sempre piaciuto qualcosa di pesante, forte, per dimostrare quello che è.

Ma, come poteva essere così dove tutto già non esiste? Poteva essere un’altra cosa: come una forma libera, in movimento, l’era della Rivoluzione che non era dogmatica. Col risultato che quella che abbiamo fatto può essere riconosciuta come un’architettura della rivoluzione. Se il popolo conquista il potere, se non c’è oramai dietro nessuno, non bisogna dire: “Io sono il padrone di tutto questo”. No, non c’è oramai un padrone. Il popolo può godere di tutta questa creazione. Non deve essere un simbolo imponente. Per questo motivo tutti i progetti che abbiamo fatto sono tanto aperti, tanto in trasformazione. Un’architettura rivoluzionaria è altrettanto bella, e si ottiene quella bellezza che si inonda dalla gente.

Allora alla fine stavamo realizzando qualcosa che non esprime potere, bensì vita. Uno deve riuscire a rappresentare che la verità è bellezza. La verità del potere è una verità parziale, perché la verità è più grande, più ricca.

Ci hanno detto che tutto quello che avevamo a disposizione era molta terracotta, nient’altro: “Abbiamo molto poco ferro e molto poco cemento, vedremo come potete arrangiarvi”. Ma nell’architettura, quando ci sono problemi di necessità, l’uomo inventa.

Nelle scuole di balletto le aule erano come una palestra, con cemento, e bisognava usare delle travi per sostenere il soffitto. Siamo andati a vedere come lavoravano i ballerini e ci siamo resi conto che nello spazio rettangolare e con soffitto piano –anche se era alto–il ballerino, mettendo in mostra la sua figura, virtualmente sbatteva col soffitto e con la parete. La linea retta diventava un limite per tutto il suo movimento. Abbiamo pensato che era meglio avere una cupola che potesse “raccogliere” gli spazi che loro creavano col movimento. E che neanche la parete fosse piana, bensì convessa o concava.

E ci fu lì quella casualità –perchè la realtà è fatta anche di scontro, di casualità–: incontriamo nel parcheggio del Ministero della Costruzione un lavoratore appena arrivato dalla Spagna che era figlio di un operaio che aveva lavorato con Gaudì e conosceva la tecnica della cupola catalana.

Allora Porro ed io abbiamo scelto la cupola. Lui l’ha fatta in una maniera ed io in un’altra. Io l’ho fatta convessa e lui concava. Inoltre, gli alberi sono cupole. Ed il luogo era pieno di alberi.

C’è stato anche il meraviglioso contatto con la pittura di Lam, questa immagine che è come un lampo. Il cervello continua a caricarsi di tutto ciò, e di lì esce la linea curva. La forma si va facendo poco a poco. Io insisto in che deve essere una risultante di tutte queste considerazioni. Una giornalista, dopo che il progetto era già avviato, mi ha detto che il mio stile era curvo. E gli risposi: “Non c’è nessun stile, il processo creativo va via auto-generandosi. Per ogni tema c’è una risposta differente, per ogni storia, per ogni luogo.”

Cominciamo ad alzare i muri e quando arriviamo al soffitto, ottanta uomini che l’operaio spagnolo aveva preparato in 6 o 7 mesi hanno incominciato a coprirlo con la cupola catalana. La spesa di cemento è diminuita moltissimo.

Anche così, prodotto del bloqueo hanno fermato le opere non produttive. C’era stato un gran investimento nella cultura, ma con le necessità dell’economia tutto quello che non era produttivo, l’hanno fermato.

Lì l’opera si è fermata.

Io sono andato a lavorare a Pianificazione Fisica, e con Sergio Baroni ho partecipato al concorso Playa Giron, dove ho ottenuto una menzione ed abbiamo progettato il Pabellon Cuba per la Fiera Internazionale Montreal´67 che si è inaugurato in aprile di quell’anno. E così. Poi mi sono messo a lavorare nel Piano Regolatore de L’Avana, negli anni 70.

Porro è stato allora il meno fortunato perché aveva un gran nemico, che avevo anche io: l’architetto Antonio Quintana che l’ha messo a lavorare nel giardino zoologico costruendo gabbie.

Porro è emigrato allora a Parigi. Quando è arrivato ha avuto un po’ di problemi, ma in seguito ha fatto meravigliosi lavori sociali, ospedali, scuole, edifici… In Italia io non ho avuto la stessa fortuna, perché era un momento con un’economia povera. E Gottardi è rimasto qui a Cuba.

Io esco da Cuba nel 74. La verità è che mi hanno detto che dovevo scegliere. Io lo giustifico così: si inventò la falsa notizia che molti dei tecnici stranieri erano in realtà spie. In Europa si parlava molto male di Cuba. Non hanno capito che eravamo in guerra, e nella guerra si può essere colpito dal fuoco amico. Se tu sei in una situazione di guerra, devi dare per scontato che possono passarti cose così, perché il pericolo compromette.

Inoltre, io lavoravo in una maniera molto irregolare, avevo alcuni progetti nella casa. Allora, dopo un paio di amici, hanno arrestato anche me. Non è certo che mi abbiano picchiato, benché la detenzione sia durata 21 giorni, e per me è diventata lunga, in un stanza piccolina, senza luce, senza potere uscire. Ma un giorno mi hanno tirato fuori, mi hanno portato in una casa con piscina, ed un medico tutte le mattine mi chiedeva: “Come si sente?.”

Io ho detto a Wanda, mia moglie: “Non andare all’ambasciata a protestare. Speriamo che tutto si risolva”. Alla fine mi hanno detto: “Ora lei può fare due cose: affrontare un giudizio o va via”. Allora io ho pensato che stavo incominciando già ad invecchiare e non avevo voglia di perdere un anno nell’agricoltura, cosicché ho detto: “Vado via.”

In seguito, dopo cinque anni, Carlos Rafael Rodriguez mi ha scritto dicendo: “Perché non passi di qui? Chiamami.”

Quella era stata una stupidità. Dopo quattro o cinque anni ritornai e non era successo niente. E’ stato un incidente di guerra. Ma la gente non lo capisce così perché non capisce la storia. Il problema è che pensano che quando arriva la Rivoluzione tutti gli uomini diventano onesti. No, non è così. Che cosa si sono immaginati, che perché è arrivata la Rivoluzione tutto il mondo diventa, improvvisamente, intelligente? No, la Rivoluzione da la possibilità di arrivare alla cultura, come diceva Martì.

Passa molto tempo.

L’architetto ha la responsabilità di realizzare uno spazio per lo sviluppo della vita di tutti gli uomini. Questo è il concetto. Alberti (1460) ha detto: “La città è una gran casa, e la casa è una piccola città”. La casa ha corridori, la città ha piazze ed ha strade. Il fatto negativo è che oggigiorno le città sono sommerse di automobili che lo coprono tutto. La lotta è più dura.

Io, tutti i lavori, li ho considerati come il più importante. Tutti li ho fatti con la stessa volontà. La mia architettura è creare questo spazio dove l’uomo possa svilupparsi bene e godere della vita. È un’architettura per la vita dell’uomo. Trattare che si senta bene, contento, in godimento.

Che una città non sia bella e funzionale è molto negativo. Per questo motivo dico che bisogna pensare bene al contesto, bisogna considerare la natura, la poesia, e la letteratura, la danza, la musica… Tutte queste cose. Se non ci sono, se c’è solamente qualcosa di funzionale, non c’è poesia. E come si vive senza poesia, senza musica? Quello che vive solo col puramente funzionale si sta castrando.

Una città è un incontro di uomini, lavoro, commercio, mercato, scambio. Naturalmente la città deve essere bilanciata, in modo che sia un organismo.

Il nostro Piano Regolatore della Città de L’Avana diceva “la città deve strutturarsi, organizzarsi attorno ai centri di lavoro creativo” che sono il cuore. Il lavoro è la cosa fondamentale, è quello che dà soddisfazione; dove c’è lavoro c’è vita, dove non c’è, c’è morte. I centri di lavoro creativo sono la produzione, l’educazione e la casa. Dove ci sia questo aspetto comunicativo, questa integrazione, la città è viva. È un incontro vivo di gente che si interconnette, si interpella. Non può esserci una città dormitorio.

Quando venimmo da Caracas a L’Avana, Porro ci ha portato alla Piazza delle Armi, alla Piazza Vecchia, la nostra esclamazione è stata: “Senti, questa è una città!”, rispetto a Caracas, che era un paesino. Poi col petrolio si è riempito di grattacieli, puri grattacieli.

L’Avana è una città bella, l’influenza spagnola, lo zucchero… inoltre ha il mare, ha un porto. Tutte le città nel mondo che hanno porti sono molto vive, perché il porto vuole dire scambio, vuole dire gente che arriva e che va via, un mercato.

Ora, il fatto negativo è che dopo l’espansione de L’Avana col capitalismo, tutto orizzontale, si è estesa ed estesa, e diventa già periferia. Periferia in una città è una zona che non ha servizi; ma nel piano della città avrebbe dovuto concentrarsi attorno alla baia. Nella collina di Guanabacoa bisognava mettere edifici alti per potere vedere l’arrivo delle barche, i treni che vanno via…

Noi dicevamo che bisognava fare delle strade piene di flamboyanes che facciano la funzione di un tunnel. Immaginavo che ogni 500 metri, 700 metri, si potesse fare una piscina. Allora qui non era visto di buon occhio usare dei sandali, soprattutto gli uomini; ma io mi immaginavo che, essendo al Tropico, la gente usasse i sandali, gli short e quando tornava a casa dal lavoro, passava per questo tunnel di flamboyanes e quando si trovava la piscina la gente attraversava, usciva dall’altro lato ed attorno alla piscina c’erano alcune casse con dentro libri e riviste, ed uno poteva mettersi a leggere alle 5 del pomeriggio, di ritorno del lavoro. Faceva la sua nuotata e dopo camminava verso casa.

Questo del Tropico era interessante. Lo dicemmo nel piano. Non si è potuto fare; ma, va bhè, per lo meno la gente va in sandali ed in short e ci sono alcuni tunnel di flamboyan.

Dà un po’ di tristezza il fatto… non tanto che l’opera sia ferma come di non poterla almeno conservare bene. Che possa essere come un parco archeologico dove si passa e si vede, perché la Scuola di Balletto è ancora affascinante. Ha bisogno di una correzione del fiume perché a Marianao hanno costruito delle fabbriche, delle tintorie ed hanno bloccato l’uscita al mare…Bisogna fare qualcosa.

Nonostante quello che mi è successo, ne sono uscito bene. Io ho avuto un tipo di educazione che mi ha fatto affrontare meglio la vita. Ho avuto anche l’esperienza della guerra, so che cosa significa quando ti distruggono tutto. La vita c’impone compiti, e bisogna affrontarli. Non c’è mai stato nel mondo un momento di pace vera, se uno legge i libri di storia; ma c’è stata sempre gente che si è dedicata alla vita, che ha tentato di cambiare: sono ottimista.

Per questo motivo io so che un giorno si riuscirà a completare questo sogno, questa scuola per l’America Latina, per il terzo mondo. In questo, ho fede. Mi piacerebbe per lo meno vedere realizzato il teatro della sinfonica che abbiamo già terminato come progetto.

Ogni tanto mi domando se è arrivato già il momento in che “mi toglieranno la corrente”. Ho ancora forza; ma quando me la toglieranno… me la toglieranno. Per lo meno posso dire che ho vissuto tanto, che la vita l’ho goduta tanto!… non mi sento frustrato. Ho i miei bambini: i miei tanti alunni –anche a Cuba ne ho molti–ed ho le opere che i miei bambini termineranno. O i bambini dei miei bambini.

da Cubadebate

di Monica Rivero

foto di Alejandro Ramirez Anderson

traduzione di Ida Garberi

Scuola D'Arte de L'Avana

Scuola D’Arte de L’Avana

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