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Ricardo Patiño: «Noi cittadini sovrani e disobbedienti»

La sala è gremita. Quando il ministro degli Esteri ecuadoriano, Ricardo Patiño, arriva al centro sociale romano «el Chentro» di Tor Bella Monaca, martedì sera, non ci sono più posti a sedere. Al tavolo ha già parlato Gianni Minà e i rappresentanti delle comunità indigene amazzoniche in guerra con la Chevron. Dopo la cena, il concerto con Matices, Sigaro della Banda Bassotti e Assalti Frontali. Ci sono personalità politiche regionali e locali (5 stelle e Pd), docenti e studenti dell’università Roma Tre, che ieri hanno ospitato Patiño. Alle pareti, una mostra sui disastri ambientali delle multinazionali in Amazzonia.

«Un’amica giornalista mi ha chiesto perché scegliere un centro sociale e non una sede diplomatica per parlare della nostra battaglia contro Chevron – inizia a parlare Patiño – la verità è che la revolución ciudadana viene dalla società civile e che preferiamo la diplomazia dal basso per risolvere i nostri problemi». Musiche per le orecchie in sala. Scattano gli applausi. Patiño è simpatico e brillante. Rivolge un saluto a Julian Assange, il cofondatore di Wikileaks che ha pubblicato le rivelazioni del soldato Bradley (Chelsea) Manning sullo scandalo del Cablogate. L’Ecuador gli ha concesso asilo politico e da oltre un anno l’attivista è imbottigliato nell’ambasciata ecuadoriana a Londra.
Il ministro si alza in piedi quando i militanti di Italia-Cuba srotolano uno striscione per la libertà dei 5 cubani prigionieri nelle carceri Usa, e dicono che «senza Cuba non ci sarebbe stato questo nuovo cambiamento in America latina». E a mezzanotte lascia il «Chentro» saltando agilmente una staccionata. L’Ecuador di Rafael Correa (economista cattolico che ha studiato in Belgio e negli Usa), è il più attento – fra i paesi del Latino-america che si richiamano al Socialismo del XXI secolo – alla comunicazione con l’Europa. Sovranità, indipendenza economica e partecipazione popolare sono state le parole chiave della serata, le stesse usate, prima, per rispondere alla nostra intervista, che si è svolta durante il tragitto in macchina dall’ambasciata ecuadoriana all’iniziativa.

Il ministro Alberto Acosta dice che Correa ha un discorso di sinistra e una pratica di destra e che state progressivamente dismettendo i temi forti della revolución ciudadana.

L’84% considera la gestione Correa buona o molto buona: una percentuale altissima, dopo 7 anni di governo, dovuta anche al livello di comunicazione permanente che abbiamo con la cittadinanza. Una volta al mese, come ministri ci riuniamo in un villaggio diverso. Abbiamo cambiato la costituzione: non al chiuso di una caserma militare, per tenere lontano la cittadinanza, come hanno fatto prima di noi, ma discutendo ogni singolo articolo con la popolazione. Crediamo nelle reti sociali e nella comunicazione alternativa. Nella nuova legge sui media, una terza parte delle frequenze va alle organizzazioni comunitarie, un altro terzo ai privati – che non sono stati contenti di non aver più il monopolio di quella che noi chiamiamo non opinione pubblica, ma pubblicata -, e il resto allo stato. Abbiamo fatto molto per il nostro paese, ottenendo livelli di crescita sorprendenti: la disoccupazione è diminuita fino al 4,3%, il potere d’acquisto del salario minimo delle famiglie è aumentato dal 60 al 90%, abbiamo messo fine alla terziarizzazione del lavoro, condotto politiche di inclusione dei diversamente abili, messo l’imposta sul reddito, duplicato il numero di iscritti alla previdenza sociale minacciando col carcere gli imprenditori che non mettevano in regola i dipendenti. La qualità dell’istruzione è notevolmente migliorata.

Una società che non cura i suoi talenti, è destinata a fallire, per noi l’istruzione è una priorità. Qualunque studente ecuadoriano che viva nel paese o fuori e sia iscritto in una delle 100 università migliori del mondo ha diritto al pagamento di tutte spese universitarie, di trasporto, di alloggio, non importa il suo corso di studi. Se invece studia in un’università classificata dal 101 al 500mo posto, queste facilitazioni può averle solo per gli indirizzi considerati prioritari per il nostro paese come energie pulite, scienze sociali… Non facciamo quel che è politicamente corretto, ma quel che dobbiamo fare. I grandi media dicono che siamo populisti, invece siamo un governo popolare. Prima, c’era il populismo del capitale che dava sussidi alle élite, il cui sport preferito era quello di non pagare le tasse. In un incontro con i ministri degli Esteri dell’America latina il mio omologo italiano ci ha chiesto come avessimo fatto a realizzare tutto questo. Ho risposto: ignorando i consigli dell’Fmi e della Banca centrale, per favore fate altrettanto con la Banca europea. Il suo sorriso scomparve e l’incontro si concluse.

L’Ecuador ha scelto il campo dell’America latina indipendente e sovrana. Quali sono stati i passi principali?
Primo, liberarci delle grandi istituzioni internazionali: Fmi e Banca mondiale, che avevano emissari nel paese e che lo avevano devastato, imponendo le loro politiche monetarie e il resto. Sono stati cacciati, nonostante le minacce di embargo al nostro petrolio, quando abbiamo chiarito che avremmo pagato solo il debito legittimo, non quello illegittimo. Abbiamo rinegoziato i contratti con le compagnie petrolifere, facendo pagare le tasse. Abbiamo chiuso la base militare Usa, l’unica nel paese. Abbiamo rispedito a casa loro due alti diplomatici che pretendevano continuare a decidere la nomina del capo della polizia. In uno dei cablogrammi pubblicati da Wikileaks, grazie ad Assange abbiamo saputo che l’ambasciatrice Usa scriveva a Washington che il presidente Correa aveva nominato un corrotto in quell’incarico per tenerlo in pugno. Ho chiesto spiegazioni, e mi ha risposto che la posizione del suo governo era quella di non commentare Wikileaks. Allora abbiamo espulso anche lei. Snowden ha poi mostrato le proporzioni dell’ingerenza Usa nella vita privata e negli affari economici dei singoli paesi, i silenzi complici di chi non ha protestato perché ha la coda di paglia. Quale pericolo terrorista cercavano le Agenzie Usa nelle telefonate di Angela Merkel o di Papa Francesco? Per vederci fra ministri degli Esteri dovremo lasciare i cellulari in ambasciata e incontrarci in un parco, e sperare che non nascondano microfoni nel becco dei passerotti? La nostra disobbedienza, si chiama sovranità.

Cosa state facendo per risolvere il problema Julian Assange?
Abbiamo avuto due conversazioni con il ministro degli Esteri inglese, William Hague, ma senza esito. Hague sostiene che, in base ad accordi europei, devono estradare in Svezia Julian perché sia sottoposto a processo. Ma è intervenuto un fatto nuovo, l’asilo politico dell’Ecuador, basato sul diritto internazionale, e noi non siamo in Europa. Abbiamo proposto una commissione di esperti bilaterale. Ora ci rispondono che preferiscono un tavolo di lavoro. Lo chiamino come vogliono, ma che si arrivi a una soluzione. Assange subisce un’ingiusta limitazione della sua libertà, rischiando anche problemi di salute.

A che punto è la vertenza con la Chevron?
Ci scontriamo con una multinazionale che ha entrate pari a tre volte il nostro Prodotto interno lordo. E’ stata condannata da un tribunale dell’Ecuador – che ha dato ragione alle popolazioni indigene dell’Amazzonia -, a pagare 19 mila milioni di dollari per i danni compiuti dalla Texaco (comprata dalla Chevron nel 2001) tra il 1964 e il ’90. Anziché aspettare l’appello, si è rivolta alla Corte permanente di arbitraggio, e spesso questi tribunali emettono sentenze a favore delle multinazionali. Chevron vorrebbe farsi pagare la somma che deve dallo stato, mettendoci in ginocchio. Si rifanno a un trattato bilaterale firmato tra Ecuador e Usa, entrato in vigore nel 1997, quando Texaco se n’era già andata: ma intanto queste norme non hanno effetto retroattivo, e poi questa è una causa tra privati – le popolazioni che hanno sporto denuncia e la compagnia petrolifera – lo stato non c’entra. Per questo, ad aprile, 12 paesi latinoamericani colpiti come noi hanno fatto causa comune, creando un osservatorio del sud. Ma abbiamo bisogno della solidarietà internazionale.

E il progetto Yasuni? Perché lo avete abbandonato? Perché avete deciso di cercare il petrolio nel grande parco della foresta Amazzonica?
Per il bene del pianeta, avremmo rinunciato al 50% del ricavo calcolato dalle riserve petrolifere custodite nello Yasuni, ma la comunità internazionale avrebbe dovuto contribuire, e questo non è avvenuto. Allora abbiamo deciso di estrarre petrolio da una millesima parte di quel territorio, discutendone in Parlamento: abbiamo bisogno di quelle risorse per continuare la rivoluzione cittadina senza ricorrere allo sfruttamento del lavoro o al taglio della spesa pubblica come fanno altrove. Lo faremo però riducendo al minimo l’impatto ambientale e rispettando le popolazioni che hanno scelto di vivere isolate. A scavare sarà solo l’impresa pubblica Petroamazona, che ha i più alti standard di protezione ambientale, riconosciuta a livello internazionale.

di Geraldina Colotti – il manifesto

preso da albainformazione.wordpress.com

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