Opinioni »

Il debito pubblico, un meccanismo di redistribuzione della ricchezza dai poveri ai ricchi

Iván Gordillo

Traducido por Daniela Trollio

(Tlaxcala)

Gli ultimi fatti economici e politici stanno succedendo a velocità vertiginosa. Lo sprofondamento dei governi della Grecia e dell’Italia in appena dieci giorni è stato un colpo durissimo dei cosiddetti mercati alle deboli democrazie parlamentari come le abbiamo concepite finora. Il colpo di stato dei finanzieri iniziato con il piano di salvataggio pubblico del capitale finanziario privato ha preso la sua forma letterale: i tecnocrati provenienti dalla banca internazionale, da Goldman Sachs quale massimo esponente della Banca Centrale Europea (BCE), occupano le posizioni di controllo degli Stati greco e italiano. Le porte girevoli adesso girano al contrario: non solo i politici ritirati occupano i posti nei consigli di amministrazione delle grandi società ma i tecnici del capitale privato occupano i portafogli pubblici di alcuni governi a cui non resta nulla di legittimo.

Non solo si compie la massima del capitalismo, che recita di privatizzare i profitti e socializzare le perdite, ma oltretutto si ordina come farlo.

Chi ordina, se non è un rappresentante eletto, non è un dittatore?! Se fossero militari, parleremmo di colpo di stato militare. Tutto ciò è un abuso in più del potere che anche prima faceva sì da favorire alcuni a spese degli altri, ma ora hanno lasciato perdere anche la forma.

Nel caso presente tutti i dubbi che attanagliano i cosiddetti mercati si incentrano sul debito pubblico dei paesi della periferia europea. Ma come sono arrivati questi Stati a indebitarsi così?

Squilibri commerciali, problemi per il capitalismo

Nel capitalismo globale ci sono una serie di economie che hanno un settore estero competitivo che permette loro di essere esportatrici nette, cioè esportano più merci di quelle che importano. Sarebbe il caso della Cina o della Germania. Queste economie si sono specializzate in produzioni richieste fortemente da altri paesi: prodotti tecnologici, macchinari o automobili nel caso tedesco, manifatturieri, anche se con molta tecnologia, com’è il caso cinese. La configurazione di questa produzione, oltre al fattore tecnologico, si basa su un tasso di sfruttamento della loro classe lavoratrice molto alto, perpetuando condizioni infraumane per milioni di persone, come nel caso cinese, o con salari congelati da decenni (dal 1989) come nel caso tedesco.

Nonostante i manuali di economia usati nelle università dicano che un’economia solida e competitiva è quella che ha un settore export importante, finora non abbiamo la capacità di esportare merci sulla Luna o su Marte o su qualsiasi altro pianeta del sistema solare. L’evidenza ci dice che se una economia esporta è perché ce ne sono altre che importano. Anche se studiosi e economisti ci dicono che da questa crisi si esce esportando, qualcuno dovrà importare.

Ci sono paesi esportatori netti, come quelli segnalati, e paesi importatori netti, cioè che importano più merci di quelle che esportano. E’ questo il caso dell’economia spagnola e di altre della periferia europea.

Il modello produttivo spagnolo incentrato nei settori della costruzione, del turismo e dei servizi, e in misura minore delle automobili, è un modello produttivo obsoleto, con forte dipendenza dall’estero e generatore di disoccupazione e precarietà.

Le economie con un avanzo commerciale come quella tedesca non utilizzano i fondi ottenuti frutto di questo vantaggio competitivo per migliorare lo stato sociale per la loro popolazione, né per aumentare i salari delle loro classi lavoratrici, né per mandare in pensione prima i lavoratori, e neppure investono la gran parte di questo avanzo nel loro settore produttivo industriale.

Questo grande volume di capitale viene destinato proprio a prestare denaro ad altri paesi che hanno un deficit, a finanziare i deficit di altre economie come quella spagnola attraverso il settore finanziario.

Il via libera al credito che permise la bolla immobiliare doveva provenire da qualche altro luogo che non fosse lo Stato spagnolo dato che la sua economia era deficitaria, dipendeva dall’estero. Le banche e le casse dello Stato spagnolo hanno potuto prestare ai costruttori, ai promotori, alle società e alle famiglie grazie al fatto che chiedevano denaro alla banca (centrale) europea. Il debito spagnolo cresceva, sia per il deficit dell’acquisto di merci sia per il debito finanziario. L’affare era perfetto e si sviluppò un forte settore bancario che otteneva rendite dall’intermediazione tra il finanziamento estero e l’economia produttiva interna. Diciamo che era perfetto finché la crisi non colpì.

Lo scoppio della crisi

La crisi si scatenò nel settore finanziario e si può datare il suo inizio all’agosto 2007, quando il primo fondo di capitali di rischio fallì dopo lo scoppio della crisi delle ipoteche-spazzatura negli USA. La crisi finanziaria fu la prima ondata di uno tsunami del quale dobbiamo cercare l’epicentro del terremoto all’interno, negli stessi meccanismi di sfruttamento e accumulazione del capitale che erano arrivati al loro limite. Da un lato, il modello produttivo del capitalismo nella fase attuale chiamata neoliberista non poteva più estrarre il plusvalore atteso per restituire i crediti aziendali. Dall’altro il via libera del credito al consumo, che in un contesto di salari decrescenti degli ultimi anni aveva potuto mantenere il potere d’acquisto e, direttamente, la vendita di merci (automobili, case, ecc.) non poteva continuare.

Qualcuno dirà che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, e noi rispondiamo che il capitalismo ci va sfruttando al di sopra delle nostre possibilità da molti anni. Se non fosse apparso il credito di massa – in fin dei conti denaro che cercava dove investire, a chi prestare in cambio di un prezzo, di un interesse per saziare la sua sete di profitti – la crisi sarebbe scoppiata prima e in forma diversa.

Il sistema del credito spostava fittiziamente la soluzione del problema, che nel capitalismo avviene sempre attraverso l’unico meccanismo che realizza la sua logica: la crisi.

La crisi è qualcosa di inerente al sistema, intrinseca al capitalismo e persino necessaria per la sua riproduzione nel tempo; ha bisogno di questa purga ai capitali inefficienti e della concentrazione di quelli che sopravvivono. Dalle crisi una parte del capitale esce rafforzata mentre una parte della popolazione riceve il colpo di trovarsi sulla strada senza alcuna forma di entrate al di là dei sussidi pubblici.

La seconda ondata del grande tsunami provocò una fermata generalizzata dell’attività produttiva nella maggioranza dei settori dell’economia. Nello Stato spagnolo è necessario aggiungervi l’esplosione della bolla immobiliare, così annunciata e prevista che spaventa l’inattività dei governanti. La distruzione di migliaia di posti di lavoro a causa della chiusura delle aziende, con l’aumento della disoccupazione fino a livelli mai visti prima, è il grande dramma sociale della crisi.

Intervento dello Stato nella crisi, il salvataggio dei potenti

Durante le prime fasi della crisi, il governo spagnolo – dopo averne riconosciuto tardi e male l’ampiezza – mise in atto una serie di misure per alleggerire i suoi effetti negativi. Le politiche più importanti, erratiche e a volte contraddittorie, furono incentrate su un forte intervento dello Stato per salvare il settore finanziario, con seri problemi per l’aumento della morosità, specialmente nelle casse di risparmio. Questi aiuti si sono sviluppati attraverso il Fondo di Acquisizione di Attivi Finanziari (FAAF), il Fondo di Ristrutturazione Ordinata Bancaria (FROB) e una serie di avalli e crediti al settore bancario. Il tentativo di contenere la crisi del settore delle costruzioni con il Piano E, dotato di più di 10.000 milioni di euro, le sovvenzioni all’acquisto di auto con il Piano 200E e il Fondo per l’Economi Sostenibile che arrivava a più di 20.000 milioni, completavano il salvataggio dei potenti. Furono aiutate le società finanziarie, molto meno l’attività delle società produttive e quasi niente la creazione di occupazione.

L’apparizione del deficit fiscale, un problema solo di spesa?

A questi interventi altamente dispendiosi per le casse pubbliche bisogna aggiungere l’aumento della spesa per il sussidio di disoccupazione, che ha visto distruggere quasi tre milioni di posti di lavoro dall’inizio della crisi. Questo livello di disoccupazione. Il 21,52% nel terzo trimestre del 2011, presuppone una spesa annuale di più di 30.000 milioni di euro.

Questo aumento importante delle spese ha contribuito a che si passasse da una situazione di avanzo fiscale dell’1,9% del PIL nel 2007 ad un deficit dell’11,1% alla fine del 2009. Davanti a questo e pressati con forza dalla UE, i governanti hanno stabilito un duro regime di diminuzione della spesa pubblica. La necessità di contenere le spese per frenare il deficit crescente provocato – bisogna ricordarlo – dal salvataggio dei potenti richiede un compito importante. Appoggiati dai mezzi di comunicazione convenzionali, hanno lanciato un bombardamento mediatico incentrato sull’idea di ridurre i costi considerati eccessivi. Convergencia i Unio, partito alla testa della Generalitat de Catalunya (la regione autonoma della Catalogna, n.d.t.) è stata la punta di lancia di una politica di tagli che finirà per imporsi in tutto lo Stato. Questo programma è incentrato nel taglio delle spese sociali, nello smantellamento del rachitico stato sociale, aprendo la sanità e l’educazione pubblica al capitale privato.

Il deficit fiscale ha due facce: da un lato le spese, di cui abbiamo già visto la provenienza del suo aumento negli ultimi anni, e dall’altro lato le entrate. Le entrate del settore pubblico si ottengono soprattutto dall’incasso delle imposte. Il sistema fiscale dello Stato spagnolo è chiaramente regressivo e insufficiente, la pressione fiscale è attorno al 32% del PIL, molto al di sotto della media europea. Le riforme degli ultimi anni hanno via via ridotto le tasse sui redditi elevati e sul capitale e aumentato la pressione fiscale sulle rendite da salario e le imposte indirette, come è il caso dell’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto). Circa il 45% della raccolta dello Stato proviene precisamente da questa tassa, totalmente ingiusta dato che grava il consumo indipendentemente dalle entrate delle persone. L’ultima modifica di questa imposta, già in piena crisi, per ottenere più entrate pubbliche, consistette nell’aumentarla dal 7 all’8% e dal 16 al 18%, mentre la promessa di alzare le tasse ai ricchi è rimasta una semplice dichiarazione propagandistica.

Altra tassa importante è l’IRPF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche – la nostra IRPEF, n.d.t.). Alla fine degli anni ’70, la fiscalità “che doveva permettere la democrazia” imponeva un tipo di gravame ai redditi più elevati di più del 63% (negli USA e in altri paesi d’Europa era abbastanza superiore). Attualmente i ricchi pagano il 43%. La riduzione delle imposte ai risparmiatori (chi può risparmiare adesso?) – che suppone l’introduzione di una imposizione fissa del 19%.21% alle rendite da capitale, le numerose modalità di esenzione fiscale ai fondi pensione, ai mutui, agli investimenti aziendali, insieme alle ultime eliminazioni delle tasse sui patrimoni e sulle successioni sono alcune delle modifiche portate a termine beneficiando la parte più benestante della popolazione.

L’esistenza di forme societarie come le SICAV (Società di Investimento a Capitale Variabile), che utilizzano le grandi fortune e che pagano in tasse solo l’1%, sono un insulto in tempo di crisi. Per quanto riguarda l’Imposta sulle Società (IS), questa prevede in teoria un’imposta del 30% sui profitti delle aziende (del 25% per le PYMES – piccole e medie imprese, n.d.t.). Le grandi aziende spagnole (quelle quotate nell’IBEX-35 – l’indice di riferimento della Borsa spagnola, n.d.t.) pagano in media il 17%. Cioè, quello che finiscono per pagare realmente dopo aver percorso tutte le strade per l’esenzione che la legge permette e, a volte, anche al limite della legalità com’è il caso dei paradisi fiscali, è una percentuale molto inferiore all’IS.

Chi paga più tasse in questo paese sono i lavoratori attraverso i redditi da salario. Questo è grave specialmente per le classi popolari perché negli ultimi anni la partecipazione dei salari alla ricchezza generata dall’insieme dell’economia si è ridotta a beneficio dei redditi da capitale. Nello stesso tempo una fiscalità centrata fortemente sui redditi da salario spiega il fatto che, quando si produce una distruzione dell’occupazione come quella dell’attuale crisi, da un lato aumenta la spesa sociale per la disoccupazione e dall’altro affondano le entrate pubbliche.

L’indebitamento pubblico come meccanismo di spoliazione delle classi popolari

Questo deficit va finanziato in qualche modo. Le emissioni di debito pubblico sono il meccanismo che gli Stati utilizzano per trovare il grande volume di finanziamenti di cui hanno bisogno per le spese che non possono coprire con le entrate tributarie. I buoni del tesoro danno diritti ai finanziatori a percepire un interesse per il denaro prestato, e alla fine del periodo stabilito gli si restituisce il capitale prestato. Il tipo di interesse, il prezzo a cui si presta questo denaro, viene determinato dai cosiddetti mercati, in base alla loro considerazione sul rischio che si assumono e sulla solvibilità degli Stati debitori. Le pressioni speculative per aumentare il tasso di rischio ed esigere interessi più alti sono all’ordine del giorno, specialmente durante i collocamenti importanti di titoli come quella dell’ultima settimana, in cui lo Stato spagnolo ha chiesto 3.500 milioni di euro che gli sono stati forniti ad un interesse del 7%.

I cosiddetti mercati non sono altro che l’insieme delle società del settore finanziario: banche e casse di risparmio, gestori dei grandi fondi di investimento e fondi pensione, assicurazioni, fondi sovrani, fondi di capitali di rischio ecc. Società che hanno al centro dei loro affari il conseguire profitti investendo il denaro di questi grandi capitali e risparmiatori del mondo, cercando redditività nell’affare finanziario di dare denaro in cambio di un interesse, di finanziare progetti imprenditoriali o, nel caso del debito pubblico, di finanziare gli Stati.

Al crescere del debito pubblico finanziato da queste società, è ad esse che viene destinata una parte sempre più grande delle entrate pubbliche che, come abbiamo indicato, ricadono sui redditi da salario e sulle imposte che paga la popolazione. La parte di bilancio che si riferisce al costo dei finanziamenti sta crescendo fortemente mentre la spesa sociale soffre i tagli.

Il debito pubblico è uno strumento in più di spoliazione che il capitale utilizza per redistribuire la ricchezza generata dal lavoro delle classi popolari ai risparmiatori e ai capitali internazionali.

Questo è diventato l’affare perfetto grazie all’influenza politica delle finanziarie che sono riuscite ad imporre, attraverso organismi come il FMI, la BCE e la UE le politiche di aggiustamento non per uscire dalla crisi, né per garantire il pagamento del debito pubblico, ma per aumentare i loro profitti a qualsiasi prezzo.

Non importa se questo avviene a costo della sofferenza della popolazione, del peggioramento dei salari e delle condizioni di lavoro, della distruzione dello stato sociale e della cosiddetta classe media, del trasformare l’elevata disoccupazione in qualcosa di cronico che poi definiranno come strutturale e dell’aumento delle famiglie sulla soglia della povertà. Il problema è che queste misure, per la loro natura, non permetteranno nemmeno di restituire il debito, né di risolvere alcuno dei gravi problemi delle economie indebitate, tra queste quella dello Stato spagnolo.
Di fatto questo si sta già dimostrando vista la gestione del taglio del 50% del debito pubblico greco contratto con la banca tedesca e francese e con l’aumento del fondo di salvataggio delle istituzioni europee.

Dietro questi movimenti sta la necessità del capitale di gestire questa crisi senza che si possa prospettare un’uscita alternativa. E la crisi dura già da molto. L’ultima sequela di questo film dell’orrore si intitola “crisi del debito”, o di come le società finanziarie si sono date da fare per spostare la loro bolla finanziaria ai bilanci del settore pubblico.

Il livello di indebitamento dell’insieme dell’economia è un peso troppo grande, specialmente quando i governanti sono disposti ad utilizzare le risorse pubbliche per coprire qualsiasi problema che il settore finanziario abbia. In un contesto in cui l’economia produttiva non si trova – né la si aspetta – e invece di cercare di resuscitarla, ciò che si conseguirà è affondarla attraverso i piani di aggiustamento, sembra difficile credere che la generazione della ricchezza, necessaria non solo per uscire dalla crisi ma per restituire il debito, sia una possibilità.

Di fronte a questa situazione esigere di non pagare il debito è una delle direttrici su cui impostare la lotta. Esigere che le classi popolari non paghino le conseguenze di una crisi di cui non sono responsabili passa per l’esigere che non si facciano carico di un debito illegittimo che è servito a salvare le finanziarie e a beneficiare il capitale.

 

1 Commento

Commento all'articolo
  1. Shizuka / www.facebook.com/profile.php?id=100003405426872

    Quanti bei lravoi! Son stato proprio temerario nel cimentarmi in questa materia.  Sono  tutti bravissimi. Un caro saluto, Fabio

    Rispondi     

Lascia un commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati. *

*