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L’era della post-verità o della moltiplicazione delle stesse menzogne?: Campagne mediatiche contro i processi progressisti latinoamericani

guerra-mediática-1-580x331Viviamo tempi d’intensa battaglia di idee, come, già da tempo, Fidel ci ha indicato. Se alla fine del secolo scorso ci hanno venduto la ricetta del postmodernismo, come un appello al quietismo, al feroce individualismo, alla fine delle utopie; ora, convertono in termine alla moda la post-verità*. I media lo usano ripetutamente e un gruppo di teorici ne discute, ardentemente, il significato e la portata. Il dizionario di Oxford lo ha proclamato come il termine inglese (post-truth) più utilizzato nel 2016. La Reale Accademia di Spagna lo ha santificato nel 2017. Dietro la valanga, si pretende sequestrare, ancora una volta, la vittima più frequente di tutti i conflitti: LA VERITÀ.

Per il filosofo britannico A. C. Grayling il mondo della post-verità influisce negativamente sulla “conversazione pubblica” e sulla democrazia. “È una cultura in cui poche affermazioni su Twitter hanno lo stesso peso di una biblioteca piena di ricerche. Tutto è relativo. Si inventano storie tutto il tempo”.

Si cerca di saltare la frontiera delle menzogne, invertire i campi della moralità, allargare la prevalenza dell’individualismo. Si apre la strada all’egemonia di ciò che il noto intellettuale polacco Zygmunt Bauman  ha denominato, alla fine del secolo scorso, come la “modernità liquida”, in cui nulla è solido: né lo Stato – Nazione; né la famiglia né il lavoro. “È il momento della deregolamentazione, della flessibilizzazione, della liberalizzazione di tutti i mercati”, ha segnalato. “Non ci sono linee guida stabili né predeterminate in questa versione privatizzata della modernità. E quando il pubblico non esiste più come solido, il peso della costruzione di linee guida e la responsabilità del fallimento cadono totalmente e fatalmente sulle spalle dell’individuo”.

Con la post-verità siamo indotti ad accettare che la verità sia stata superata, che l’abbiamo lasciata alle spalle. Ci si vende l’idea dell’impossibilità dell’emancipazione, del trionfo delle apparenze sul certo, dell’inesorabile obsolescenza dell’etica.

Ma viviamo realmente nell’era della post-verità? O è semplicemente il tempo della moltiplicazione delle stesse menzogne di un tempo, grazie all’esistenza e all’interazione delle moderne infrastrutture tecnologiche, delle attuali pratiche comunicative, compresi i social network digitali, ed i predominanti comportamenti sociali?

Cuba: assedio mediatico permanente

Guardandolo da Cuba, le qualificazioni non valgono molto. La traiettoria dei grandi media e le campagne mediatiche dell’impero e dei suoi alleati contro questo paese, sono sempre state, invariabilmente, le stesse dallo stesso trionfo rivoluzionario nel 1959. Manipolazioni, grossolane menzogne, mezze verità, immagini scattate come in un Jurassic Park, si sono continuamente ripetute per quasi 60 anni.

Si demonizzò l’esecuzione dei criminali batistiani, che assassinarono migliaia di figli di Cuba; si manipolò la legale e giusta nazionalizzazione delle società USA che dominavano la maggior parte dell’economia del paese; si propagò l’immagine di Cuba come obbediente satellite sovietica; si distorse lo scopo della presenza internazionalista cubana in Africa (che preservò l’indipendenza dell’Angola, contribuì alla liberazione e all’indipendenza della Namibia ed aiutò alla sconfitta dell’ignominioso apartheid in Sud Africa); e si raccontò, più e più volte, l’Ora Finale di Castro, o del socialismo a Cuba.

I grandi mezzi stampa o i libelli locali a Miami, le agenzie di notizie e la radio ad onde corte, sono serviti, nei primi decenni della Rivoluzione, come principali e quasi quotidiani veicoli delle campagne contro Cuba. Più che spazi di comunicazione erano servili strumenti di propaganda ed aggressione. Vale ricordare come il New York Times abbia censurato un ampio reportage sul reclutamento della forza mercenaria che avrebbe invaso Cuba nel 1961, al fine di non rivelare il coinvolgimento del governo USA in quel piano, o quello scandaloso e risibile dispaccio dell’agenzia UPI, degno per lo studio della beffa nelle scuole di giornalismo, in cui si parlava del riuscito sbarco di quella forza mercenaria nell’inesistente Porto di Bayamo.

Simbolico per questi tempi è che la prima offensiva mediatica della Rivoluzione cubana, dal 21 al 19 gennaio 1959, si chiamò OPERAZIONE VERITA’; quando Fidel convocò più di trecento giornalisti provenienti da diverse parti del mondo per chiarire la giustezza dei processi intrapresi contro i criminali batistiani ed esporre con fermezza i principi del nascente processo rivoluzionario.

Da quei giorni sarebbe nata l’idea di creare i primi media internazionali della Rivoluzione: l’agenzia di notizie Prensa Latina e la stazione radio ad onde corte Radio Habana Cuba.

A capo di Prensa Latina, ci sarebbe stato il giornalista e rivoluzionario argentino Jorge Ricardo Massetti, amico e discepolo del Che, che nel processo di fondazione dell’Agenzia avrebbe lascito tracciato, con cristallina chiarezza, il suo principio d’azione: “Noi siamo obiettivi ma non imparziali. Consideriamo una codardia essere imparziale, perché non si può essere imparziale tra il bene ed il male”.

Nuovi tempi, nuove tecnologie: il monopolio di sempre

L’era dell’informazione o la Società Informatizzata in cui viviamo – come indistintamente la chiamano gli studiosi – è stata teatro di cambi sostanziali nei modi e nella velocità di far comunicazione. Internet ha esteso la portata dei media, ha convertito in fatto istantaneo la notizia, ha ampliato le fonti di emissione e moltiplicato il volume di informazioni circolanti. Ma ci sono cose che non sono cambiate: il potere mediatico rimane nelle mani di pochi, la manipolazione e la menzogna continuano ad essere le armi preferite contro coloro che si propongono far fronte al dominio egemonico del capitale e del mercato; si continua imponendo e standardizzando idee, simboli, culture.

Un pugno di oligarchi della finanza e dell’industria, appartenenti a quell’élite transnazionale dell’1% che di solito s’incontra a Davos o in Bilderberg, controlla sempre più i mezzi di comunicazione ed i messaggi che vengono emessi. Lì si sono anche installati i magnati delle nuove tecnologie e delle reti sociali online, come l’uomo più ricco del mondo di oggi, Jeff Bezos, padrone di Amazon, della società di turismo spaziale Blue Origin e ora anche del Washington Post, il secondo media meglio classificato nel Ranking de Alexa per gli USA.

Pochi empori sono i padroni dei grandi giornali e televisioni nell’abbondante selva mediatica USA; solo cinque gruppi controllano la stampa francese di gran pubblico. Non pochi media latinoamericani sono sotto il controllo di gruppi USA e spagnoli.

Già nel 1843, nella sua Monografia della Stampa Parigina, Honoré de Balzac avvertiva che, quando un uomo d’affari compra un giornale (un mezzo di comunicazione diremmo oggi) lo fa “… o per difendere un sistema politico il cui trionfo gli interessa, o per convertirsi lui stesso in politico, facendosi temere”.

Le insidie, le falsità, il maneggio mediatico, che in precedenza si esercitava dalle agenzie, dalla radio o dalle pubblicazioni stampate, ormai sono ampiamente trasmesse dalla televisione satellitare, siti digitali provenienti da varie fonti, o attraverso i miliardi di utenti delle reti sociali.

I poteri mediatici globali gestiscono anche i fili dei media locali. I messaggi e le opinioni che vengono emessi a Washington, New York, Miami e Madrid sono riprodotti, con immediatezza e profusione, nei media dominanti in America Latina, gran parte delle cui azioni sono nelle mani di gruppi aziendali, finanzieri o mediatici di USA o Spagna.

I media come partiti politici. Strumenti di guerra

Nello scontro ideologico e militare della globalizzazione, i media ed i social network digitali agiscono come una forza politica e un’arma da combattimento. Sono convenientemente utilizzati per la provocazione, l’esaltazione e l’ammorbidimento nelle situazioni di conflitto.

Dobbiamo ricordare il ruolo delle TV e dei giornali dell’oligarchia venezuelana nel coordinamento ed esecuzione del golpe contro il Presidente Hugo Chávez, nell’aprile 2002.

Né dimenticare come il New York Times ed il Washington Post siano stati convenientemente usati per giustificare l’invasione dell’Iraq, nel marzo 2003. Nel giornale della città di New York, a quei tempi, si potevano leggere titoli come: “Arsenale segreto: alla ricerca dei batteri di guerra” o “Un iracheno parla dei nuovi siti di armi chimiche e nucleari”. Quegli articoli furono firmati dalla giornalista stella del Times, Judith Miller, che ha riconosciuto ricevere le informazioni dal cosiddetto Iraqi National Congress, un’organizzazione con sede a Washington e finanziata dalla CIA. I servizi segreti intossicavano l’ informazione per spaventare il pubblico USA e propiziare lo scenario di guerra.

In modo simile l’hanno fatto nelle guerre di Libia e Siria o nella frenetica offensiva totale contro la Rivoluzione Bolivariana in Venezuela: inventare lo scenario, generare incertezza, promuovere l’odio, attizzare la violenza.
Nel Manuale dell’Esercito USA per la Guerra Non Convenzionale del 2010, si definisce chiaramente la connessione media-guerra: “L’aspetto più importante di un’insurrezione di successo è la fattibilità del messaggio. È essenziale che il messaggio raggiunga le persone e abbia un significato per il loro modo di vita. L’insurrezione non può ottenere un sostegno passivo o attivo senza raggiungere questi obiettivi. Ciò fa che il linguaggio, la cultura e la geografia delle masse siano particolarmente importanti”.

Riafferma inoltre che “… l’ideologia come insieme interrelato di credenze, valori e norme, è usata per manipolare e influire sul comportamento degli individui all’interno del gruppo”.

Il Manuale definisce un’escalation di azioni che portano al frattura morale, alla resa o alla sconfitta per le armi del governo nemico. Tra loro segnala in ordine di escalation:

– Creazione di un’atmosfera di diffuso malcontento attraverso la propaganda e gli sforzi politici e psicologici per screditare il governo.

– Agitazione, creare un’opinione pubblica favorevole (evocando la causa nazionale), creare sfiducia nelle istituzioni stabilite.

– Intensificazione della propaganda, preparazione psicologica della popolazione per la ribellione.

Non vi sembra questo troppo simile a quello che è successo in Venezuela e a quello che sta succedendo adesso in Nicaragua?

Ed a proposito, nello stesso Manuale dell’Esercito USA si stabilisce che uno dei primi obiettivi da annientare dall’insurrezione (leggasi gli alleati di Washington) sono i mezzi di comunicazione dell’avversario. La fase 6 della strategia include una delle operazioni da eseguire: “Selezionare come obiettivi l’infrastruttura dell’area di retroguardia, come depositi di carburante e munizioni, cantieri ferroviari, aeroporti, vie fluviali, impianti di generazione di energia elettrica, nonché installazioni radio, TV ed altri mezzi di comunicazione di massa”.

(nota: il termine post–verità, traduzione dell’inglese post-truth, indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza).

di Randy Alonso Falcon

da Cubadebate

traduzione di Francesco Monterisi

 

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