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Benicio del Toro: “Lo show mi piace solo quando sto lavorando”

Avevo appena conversato poco più di mezz’ora con un attore di Hollywood. Per meglio dire: un Attore, con “a” maiuscola, perché ovviamente non è la stessa cosa un tipo con un Oscar, una Palma d’Oro, un Premio Goya che qualunque Jackie Chan o Sylvester Stallone, calci vanno e pallottole vengono senza senso né giustificazione. La cosa certa è che non ero mai stato davanti ad una stella del cinema mondiale. Mai, fino a che una congiunzione propizia degli astri mi ha seduto di fronte a Benicio del Toro nella terrazza dell’Hotel Nazionale a L’Avana.  

Dal primo momento, Del Toro mi è sembrato Javier Rodriguez, il suo poliziotto senza macchia in “Traffic”. Tentai di vedere qualche dettaglio che lo legasse con Fred Fenster, il delizioso malvivente di “I soliti sospetti”, o col guerrigliero Che Guevara che incarnò per il suo amico Steven Soderbergh. Ma quello sguardo reticente mi portava, inevitabilmente, all’agente incorruttibile che gli ha dato il premio dell’Accademia nell’anno 2000.

Niente denunciava in lui l’uomo abituato ai teatri di prosa, alla riverenza universale ed al grido della fama.

Devo ammetterlo: è servita molto poco la mia risorsa della provocazione. Benicio del Toro è un raro esemplare portoricano che fa dell’equanimità un meccanismo di sopravvivenza, ed evade le domande incisive con un’eleganza educata, allenata da tanti anni di contatto coi mezzi di comunicazione.

-Voglio sapere che magnetismo ha Cuba che Benicio del Toro ritorna una ed un’altra volta…

Per la sua gente, la sua storia… sono venuto molte volte. Dal 2001 al 2007 venni qui frequentemente per fare il lavoro investigativo per i film del Che, ed in quel tempo conobbi molte persone, ho fatto molti amici. Così è come succedono le cose.

-Dicono che i film lasciano cicatrici nell’anima dell’attore…..

I personaggi ti educano in una o in un’altra maniera. Per esempio, in “Senza paura” e “Paura e delirio a Las Vegas”, leggendo il libro e conoscendo l’autore, Hunter S. Thompson, mi sono aperto un nuovo modo di vedere la letteratura. Con “Traffic” mi è successo lo stesso, lavorando direttamente con una problematica tanto delicata come quella della droga. Ed il film del Che, monumentale, mi ha insegnato molto sulla storia dell’America latina. Credo che sia quella che più mi ha marchiato.

-Nel film del Che, qualcuno afferma che per essere rivoluzionario bisogna essere un po’ pazzo. Condivide questo criterio?

Tra molte delle altre cose, bisogna aggiungere questo. Mi stai chiedendo se io sono un po’ matto per fare quello che faccio? Bhè, magari lo sono.

Dopo un sorriso, beve il suo caffé, mi fissa e mormora:

Bisogna essere un po’ osato. Più del normale. Benché non del tutto matto, perché bisogna essere conseguente ed avere un ordine ed una preparazione. Ma sì, definitivamente bisogna essere un po’ matto per essere rivoluzionario ed anche per metterti a fare l’attore, che è qualcuno il cui destino è nelle mani degli altri: il regista, lo scrittore, il produttore… La carriera del pittore o del musicista è nelle sue proprie mani; quella di un attore, no.

- Crede che cinema e compromesso politico devono essere un matrimonio, o possono prescindere uno dall’altro?

Possono camminare insieme, ma è anche possibile fare buon cinema con l’unico proposito di intrattenere. Perché alla fine l’idea del cinema è fuggire.

- Come fanno carriera le minoranze latine a Hollywood?

E’ complicato. Il cinema risulta difficile per il latino, il modello funziona come quello dell’afro-americano o dell’italo-americano. Guarda questo anno, ad Alejandro González Iñárritu –che è messicano – gli hanno dato una doccia di Oscar, ma lui li meritava da tempo. Alcuni latini arrivano negli Stati Uniti con un lavoro fatto nei loro stessi paesi, come Diego Luna o Gael Garcia Bernal. Altri, invece, si sono formati là, come nel mio caso. Il problema è che il latino l’invitano a fare un latino, e sicuramente quello che scrive i copioni non lo è. Allora sarai narcotrafficante, facchino, non so… Perché la domanda vera è: Quanti scrittori latini lavorano nell’industria, facendo copioni che siano interessanti da raccontare per Hollywood?

-Ad un giornale spagnolo le ha dichiarato che adora il mistero che nasconde una pantera nera. Come fa chi lavora per essere negli occhi del mondo, ad essere una persona riservata, introversa?

Ci sono attori estroversi, ed altri no. Succede come col resto della gente. Alcuni preferiscono lo show; a me solo piace quando sto lavorando. Sono un uomo tranquillo.

- Si considera un buon attore, un gran attore, o un uomo che ha avuto la fortuna di stare nella stazione quando il treno passava per lui?

Io credo che ho avuto la fortuna di avere talento, credo che in certi momenti sia stato migliore che in altri. Ho avuto fortuna, sì, ma è arrivata accompagnata dallo sforzo, dalla disciplina e dall’entusiasmo. Ci sono molti attori di oggi che mi piacciono molto, non credo che devo mettermi a dire “io sono un gran attore”, questo lo devono dire gli altri. Non credo che tocchi a me dirlo.

di Michel Contreras

foto: K

traduzione di Ida Garberi

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